VINO E BIRRA
NELL' ANTICA ROMA

Nell'antica Roma il vino era la bevanda per eccellenza, i cui effetti inebrianti venivano talmente temuti che, nella prima età repubblicana, lo si proibiva ai fanciulli, agli schiavi e soprattutto alle donne: la tradizione stabiliva persino lo ius osculi, cioè il diritto del paterfamilias di baciare sulla bocca tutte le femmine della casa, per accertarsi che non ne avessero fatto consumo. L'ultima condanna inflitta a una matrona bevitrice risale comunque al 194 avanti Cristo; al tempo dell'Impero, il vino era tranquillamente consumato da entrambi i sessi.

Si beveva soprattutto dopo cena, nelle quantità prescritte da un convitato, eletto dagli altri magister bibendi: il gioco più comune ai banchetti consisteva nel costringere l'ospite a sorbirne tante tazze quante erano le lettere del suo nome. Secondo i medici, invece, l'uomo frugale non avrebbe dovuto berne che tre coppe - una per il brindisi, una per l'amore, la terza per il sonno - astenendosi dalle successive, che avevano fama di condurre alla violenza, alla rissa e alla pazzia.

Tanta circospezione oggi non può che stupirci, perché il vino antico, fortemente annacquato, raramente superava i cinque gradi. Il prodotto schietto, denso e aspro, era infatti praticamente imbevibile... Sì, perché quello che i romani chiamavano vino, pur consistendo in succo d'uva fermentato, non aveva né l'odore né il sapore del nostro: i procedimenti atti a favorirne la difficile conservazione, infatti, ne snaturavano completamente le caratteristiche. Le tecniche di produzione, ancora alquanto primitive, non riuscivano nemmeno a impedire che inacidisse nelle botti, le quali venivano perciò spalmate di resina o addirittura di pece. Ciononostante, era sempre necessario mescolarlo al vino cotto e dolcificarlo col miele.

Candidum o atrum, bianco o rosso, il vino era comunque troppo “pesante” e andava diluito con acqua, nella percentuale di almeno tre parti per due, quando non addirittura di tre per una. Per correggerlo, i raffinati usavano acqua di mare, come nel famoso vino greco di Coo, e lo insaporivano con estratto di rose, viole e nardo, o con un mazzetto di erbe aromatiche. D'inverno si beveva bollente e speziato, come il nostro vin brulé, mentre d'estate lo si preparava spesso con acqua ghiacciata (o, meglio ancora, con neve) e frammisto ad altri ingredienti che lo rendevano simile all'attuale sangria spagnola.

Importante era la data di produzione: i vini migliori, che contavano fino a vent'anni di invecchiamento, specificavano già nella terracotta della giara l'anno di raccolta delle uve e il tipo di viticcio; quelli eccezionali, per invecchiamento o qualità, erano provvisti di un'etichetta esplicativa appesa al collo dell'anfora. L'annata migliore fu quella del console Opimio, che doveva esser stata veramente fuori dal comune, se i vini più pregiati venivano chiamati opimii per antonomasia.

Esistevano anche gli aperitivi, da sorbire a piccoli sorsi prima di cena, o durante gli antipasti. Per inciso, i romani furono pure gli inventori del nostro vermouth, che prende il nome dal tedesco wermut (assenzio), termine col quale venne tradotto il latino absinthium.

Albano, Caleno, Setino, Ulbano di Cuma, Erbulo, Tiburtino, Fundano, Trifolino, Labicano, Cecubo sono soltanto alcuni dei vini romani, tra i quali spiccava l'ottimo Falerno, celebrato da tutti gli autori classici. Per ultimo, occorre viceversa citare il vino di Marsiglia, uno dei peggiori, che veniva addirittura reputato tossico: i patrizi avari, ma tenuti ad accontentare molti clientes, ne facevano omaggio ai protetti con la sportula quotidiana, per risparmiare...

In ogni caso, buono o cattivo, il vino era giudicato una bevanda da persone civili. Non altrettanto la birra, quella cervesia che, diffusissima in Egitto, in Gallia e in Iberia, veniva disprezzata dai romani come un alcolico da barbari. Prodotta su larga scala dalla fermentazione del frumento e dell'orzo, ma priva ancora di luppolo, la cervesia si caratterizzava per un gusto assai meno amaro della nostra attuale birra. A Roma, dove veniva propinata soltanto come ricostituente ai malati, farne uso era considerato alquanto trasgressivo...

 

Morituri te salutant
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